Di solito, quando insieme ad altri colleghi, partecipiamo a momenti formativi per la sicurezza sui luoghi di lavoro, noi operatori del sociale suscitiamo, negli addetti appartenenti ad altri settori, una sorta di curiosità.
Fino a quando usiamo parole come “nidi” o “scuole materne” diciamo che, tutto sommato, tutto fila liscio e, in certo senso, risultiamo abbastanza riconoscibili, mentre già se utilizziamo termini come centri socio-occupazionali, centri diurni, comunità alloggio o Pollai sociali (?!), le facce dei nostri interlocutori si fanno più misteriose… a tratti assenti.
Chi fa il nostro mestiere (termine che uso volentieri nella sua più alta accezione per descrivere il nostro lavoro) ci è ormai abituato. Termini come educatore o educatrice vengono da sempre assimilati a volontario o volontaria, oppure a obiettore di coscienza (figura che non esiste più dal 2005) come le educatrici che lavorano nell'infanzia nonostante lauree, corsi e titoli, continuano a chiamarsi “dade”. Non mi dilungo, e mi scuso con tutti i colleghi con altre figure professionali che non cito ma l'elenco sarebbe veramente lungo e sono sicuro che ognuno potrebbe a tal proposito raccontare un aneddoto.
Figuriamoci quando queste figure, come nel mio caso si sposano con la sigla RSPP. Qui, diciamo che si arriva a quella che potremmo definire una vera è propria congiunzione astrale.
RSPP: anche questa sigla misteriosa, nei non addetti ai lavori, cela dubbi e sospetti in particolar modo sulla doppia P.
Questo in verità accadeva fino all'anno scorso.
Il Covid-19 ha portato, purtroppo, alla ribalta questa figura. Un po' tutti hanno capito che l'RSPP è quella figura che si occupa di sicurezza dei lavoratori e non solo. In questo periodo i Responsabili del Servizio Prevenzione e Protezione (“ecco spiegate le due P!”) sono quelle persone che nelle aziende vengono interpellati sul distanziamento sociale, sulle famigerate e a tratti introvabili mascherine e su cose più complesse e difficili come la gestione di casi sospetti.
In questo periodo ci si è accorti anche di tutte le persone che lavorano nel cosiddetto "terzo settore" e che spendono la loro professionalità tutti i giorni per le categorie più fragili della nostra società.
Ma soprattutto in questo triste periodo che stiamo attraversando, tutti questi operatori hanno continuato a svolgere il proprio lavoro con responsabilità applicando quelle semplici buone pratiche lavorative a cui siamo stati formati: “banalmente” sapersi lavare bene le mani, utilizzare i guanti e soprattutto cambiarseli, non andare al lavoro se si è raffreddati, non creare commistione tra operatori e utenza. Erano tutte cose che già sapevamo e che mettevamo in atto da sempre: questo ci aiutato. Ma mi preme ricordare ancora una volta, e a gran voce, che quello che ci ha aiutato, oltre alla grande professionalità, è stato quel senso di responsabilità civile che è parte imprescindibile del nostro lavoro.
Quel senso di responsabilità che ci spinge a fare bene il nostro lavoro, a tornare a casa stanchi ma con la voglia ancora di ascoltare qualche amico che ha bisogno di una mano, che ci fa porre delle domande su noi stessi e sugli altri, imparando ogni giorno qualcosa e cercando di andare oltre.
Finito, speriamo al più presto, questa fase di emergenza, forse ritorneremo ad essere di nuovo confusi con dade o obiettori, torneremo a spiegare le nostre “buone pratiche di lavoro” nei corsi per la sicurezza, suscitando curiosità, ma questo, francamente, poco importa. Restiamo soddisfatti di ciò che siamo.
Valeriano Palermo - RSPP di Seacoop
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